Da oggi l'Italia non è più una democrazia parlamentare. Non c'è altro
modo di leggere il voto di ieri se non come una resa. Una clamorosa,
esplicita e trasversale abdicazione del parlamento. Per la seconda volta
in poco più di un anno una composizione parlamentare maggioritaria si è
messa attivamente in disparte. Ha dichiarato la propria impotenza,
incompetenza e irrilevanza, offrendo il capo e il collo a un potere
altro, chiamato a svolgere un ruolo di supplenza e, in prospettiva, di
comando. E se la prima volta poteva apparire ancora "umana", la seconda
volta - con un nuovo parlamento, dopo un voto popolare dal significato
inconfutabile nella sua domanda di discontinuità - è senz'altro
diabolica, per lo meno nei suoi effetti. C'è, in quella triste
processione di capi partito col cappello in mano, in fila al Quirinale
per implorare un capo dello stato ormai scaduto di rimediare alla loro
congiunta e collegiale incapacità di decisione, il segno di una malattia
mortale della nostra democrazia. La conferma che la crisi di sistema è
giunta a erodere lo stesso assetto costituzionale fino a renderlo
irriconoscibile. Forse non è, in senso tecnico, un colpo di stato.
Possiamo chiamarlo come vogliamo: un mutamento della costituzione
materiale. Una cronicizzazione dello stato d'eccezione. Una sospensione
della forma di governo... Certo è che questo presidenzialismo di fatto,
affidato a un presidente fuori corso per un mandato tendenzialmente
fulmineo, stravolge tutti gli equilibri di potere. Produce una lesione
gravissima al principio di rappresentanza. Soprattutto fa scomparire la
tradizionale forma di mediazione tra istituzioni e società che era
incarnata dal parlamento, tanto più se questo venisse occupato e
bloccato da una maggioranza ibrida e bipartisan, contro-natura e
contrapposta al volere della stragrande maggioranza degli elettori.
D'ora in poi - e in un momento socialmente drammatico - Governo e Piazza
verranno a confrontarsi direttamente e frontalmente, senza diaframmi in
mezzo, senza corpi intermedi per la banale ragione che il principale
strumento di mediazione, il partito politico, si è estinto in diretta,
travolto dalla propria incapacità di mediare non più, ormai, gli
interessi e le domande di una società abbandonata da tempo ma le proprie
stesse tensioni interne, le contraddizioni tra le sue disarticolate
componenti. Di questo è morto il partito democratico: della sua
incapacità a contenere la spinta centrifuga dei propri interiori furori,
degli odii covati per anni, delle idiosincrasie personali (rispetto a
cui, diciamolo sinceramente, un voto per Rodotà avrebbe costituito uno
straordinario antidoto e il segno di una possibilità di cura). Né si può
dire che il Pdl sia mai esistito come partito, incentrato com'è sulla
esclusiva figura del suo leader e sulla difesa dai suoi guai giudiziari.
Dopo questa ostentazione pubblica di dissennatezza e incapacità non
basterà nessun accanimento terapeutico, nessun appuntamento tardivo o
attesa di una figura salvifica per rimediare al rogo simbolico della
residua capacità operativa del Pd e in generale del centro-sinistra.
Così come non sarà sufficiente un'estemporanea cooptazione nei giochi di
potere del Pdl con relativi cespugli per assicurargli una qualche
capacità di «controllo sociale». Anzi, lo vedremo sempre più spesso
soffiare sul fuoco. Il rischio che la crisi italiana, contenuta finora
entro le sponde imprevedibilmente solide della dialettica elettorale,
entri in una fase esplosiva è terribilmente alto. E non si riduce
proclamando coprifuoco tardivi. Né maldestri tentativi di abbassare la
pressione con betabloccanti predicatori, ma con un surplus di
partecipazione. Favorendo, con tutti i mezzi legali disponibili, una
collettiva presa di parola capace di surrogare in basso il vuoto di
senso generatosi in alto.
Marco Revelli
21 aprile 2013 su "Il Manifesto"
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