Sono
d'accordo con Marco Revelli quando sostiene che la vicenda del secondo mandato
a Napolitano, per come è andata, più che a un golpe assomiglia ad una resa. Una
resa del Parlamento che ha rinunciato alle sue prerogative costituzionali,
consegnando i propri destini nelle mani di un Presidente di 88 anni,
praticamente scaduto nel proprio mandato. Di fatto sotto il profilo
istituzionale si è consumato un disastro, germinato per molte ragioni, la prima
delle quali aver voluto collegare direttamente l'elezione del Presidente
all'assetto del nascente governo. Rinnovato l'incarico a Napolitano, fin
dall'inizio fautore del governissimo, lo svolgimento successivo degli eventi è
stato quasi ovvio. Come il ritorno in primo piano nell'agenda dei principali
partiti di governo della ricetta presidenzialista e, contemporaneamente,
l'uscita dalla lista delle priorità delle norme anticorruzione e sul conflitto
di interessi. Da giorni risuona nitido il canto delle solite sirene,
accompagnato dal consumato richiamo alla “governabilità”. Il presidenzialismo
viene usato come la formuletta giusta verso cui incanalare la voglia di
cambiamento di tanti italiani esasperati dall'impoverimento e dalla mancanza di
prospettive.
Lo
schema è collaudato. Nella primavera del 1993 l'introduzione per via referendaria del
maggioritario fu presentata come il toccasana che avrebbe spazzato via la
corruzione dal sistema politico italiano, che la stagione di Mani Pulite aveva
portato in piena luce un anno prima. Si disse: tutta colpa del proporzionale:
le trattative prolungate, gli inciuci (allora si chiamavano consociativismo),
gli accordi con partiti e partitini fomentano di fatto la spartizione e la
corruzione del sistema. Quello che abbiamo visto e vissuto in seguito c'ha
insegnato che la corruzione politica è prosperata più vispa che mai col
maggioritario, durante la Seconda Repubblica, mostrandosi più sfacciata di
prima. La Corte dei Conti nel 2012, infatti, ha stimato in 60 miliardi di euro
all'anno i maggiori costi imputabili al malaffare appolpato sul corpo e nelle
membra dell'attuale amministrazione pubblica.
Oggi,
contro i dolorosi morsi della crisi e la conseguente sfiducia in questi
partiti, molti politici e commentatori brandiscono l'elisir del presidenzialismo.
Si prescrive un ulteriore accentramento del potere in un momento in cui il
baratro tra rappresentati e rappresentanti è già molto profondo, e in una
prevedibile prospettiva di ulteriori manovre economiche impopolari. Come dire
agli zoppi calci negli stinchi. In un Paese come il nostro dove i conflitti
d'interesse prosperano rigogliosi e la sovrapposizione dei poteri politico,
economico e mediatico assume tratti più sudamericani che europei, proposte
simili rischiano di disarticolare ciò che resta di una democrazia già
declinante e malata. E si annunciano foriere di ulteriori crisi.
Fabio
Bernardini
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