venerdì 26 giugno 2015

Chiediamo asilo

L'iter tecnico-amministrativo con cui da quasi tre anni va avanti, anzi sta fermo, il progetto del futuro asilo nido comunale è un esempio da cui si potrebbe trarre la trama di una commedia. Il nostra brillante amministrazione comunale, dopo aver acquistato da privati per 160 mila euro la presella dove realizzare l'opera, ha scoperto che lì non si può costruire per la presenza di ingenti resti archeologici, quindi, senza nessun approfondimento ha spostato la previsione con un semplici tratto di penna: si farò l'asilo nel fazzoletto di terra che attualmente ospita il parcheggino sotto la Jacopo. Sindaco e Giunta hanno già messo il disco: è solo sfortuna, chi poteva sapere che l'area non era adatta? Risposta ovvia: la Soprintendenza ai Beni Archeologici. Che, guarda caso, aveva avvisato per tempo e in maniera formale l'amministrazione dei rischi connessi alla scelta di un'area di particolare interesse archeologico (vedi Il Tirreno di domenica 20 giugno). Ma quando l'amministrazione mise mano al progetto eravamo sotto elezioni e, per mostrare ai volterrani che le cose procedevano (si fa per dire) spedite, fece orecchie da mercante agli avvertimenti della Soprintendenza, e andò avanti lo stesso come niente fosse. Detto fatto, furono spesi 160 mila euro di soldi pubblici per un campo urbanisticamente inservibile. Per fortuna di Buselli dei soldi pubblici gettati al vento nessuno si preoccupa, ma forse qualcuno potrebbe accorgersi che il piano B, rimediato ed esibito in fretta e furia da sindaco e soci per minimizzare l'effetto boomerang sulla stampa, è un'ennesima ciofeca. La nuova previsione dev'essere stata individuata perché urbanisticamente già destinata agli usi scolastici, visto che insiste sui terreni circostanti la Jacopo da Volterra, ma, classificazione urbanistica a parte, è uno strafalcione. Lo spazio è troppo ristretto per un asilo nido che - nel 2015 - richiederebbe un giardino degno di questo nome. Inoltre, l'edifico andrebbe ad appesantire una scarpata già fragile per i delicati equilibri geomorfologici che più volte hanno creato problemi. Infine la struttura verrebbe inserita quasi in adiacenza ad altri edifici di interesse pubblico: le scuole elementari e medie, al palestra, ecc., che potrebbero risentirne negativamente. A che servono i tecnici, gli urbanisti, i consulenti architetti di grido pagati profumatamente per anni, se poi le previsioni di edifici così importanti vengono tirate fuori dal cilindro da amministratori ottenebrati dalla voglia di apparire, dall'ansia da figuraccia e dalla propria incompetenza?

Progetto per Volterra

venerdì 19 giugno 2015

Il diritto del lavoro nell’epoca delle multinazionali





La recente vicenda della Smith e gli ultimi avvenimenti accaduti nella fabbrica di Saline di Volterra danno lo spunto per un ragionamento più ampio sul diritto al lavoro.
Fino agli anni ‘90 nessun governo avrebbe aggredito il sistema delle tutele del lavoro,  perché era opinione comune che un nucleo di garanzie a favore dei lavoratori fosse indispensabile per bilanciare la disparità sostanziale di forza che separa il datore e lavoratore, sia sul mercato del lavoro e sia nell’impresa. La debolezza del lavoratore è correlata anzitutto all’essere il suo salario fonte esclusiva, o prevalente, di sostentamento per lui e la sua famiglia, così da costringerlo a cercare/trovare con urgenza e in ogni caso un posto retribuito: pena la fame. Questo semplice dato di fatto pone il lavoratore in uno stato di grave inferiorità nel momento in cui deve trattare con il datore condizioni e termini della sua assunzione o permanenza in azienda. La disparità oggettiva si è aggravata in un contesto di forte disoccupazione, all’interno di un mercato altamente concorrenziale. Una debolezza che può accentuarsi anche nel corso del rapporto di lavoro, dove il potere disciplinare e direttivo di cui è fornito il datore non fanno che ribadire la disparità tra le due posizioni. Ecco perché il diritto del lavoro, tradizionalmente inteso, è nato per riportare un minimo di equilibrio tra deboli e forti, nella conclusione del contratto e nella conduzione del rapporto, imponendo diritti minimi sottratti alla libera disponibilità dei contraenti.
Questi principi, che sono stati per anni il fondamento del diritto del lavoro, sono da un ventennio sistematicamente aggrediti ed erosi da riforme e riformine che partono da un ragionamento completamente ribaltato: il soggetto da tutelare è l’impresa, considerata il motore e totem dell’economia, mentre l’uomo che vi lavora ha perso di valore, diventando completamente intercambiabile. Si dice che l’impresa, e più ancora se è multinazionale, per rimanere sul mercato in tempi di crisi non può sostenere un costo del lavoro troppo alto e “pagare il prezzo” del riconoscimento di alcuni diritti (considerati “privilegi”) ai lavoratori, come quello di essere reintegrati nel posto di lavoro  in caso di licenziamento illegittimo (art. 18 dello Statuto dei lavoratori). La semplice cronaca di come si sta comportando la multinazionale Schlumberger nella trattativa che coinvolge i lavoratori Smith è, però, la riprova di come l’impresa, anche in tempi di crisi, non sia affatto debole nel rapporto con i lavoratori e, anzi, possegga una forza contrattuale sproporzionata, usata senza troppi complimenti per raggiungere i propri scopi e imporre la propria volontà su quelle di 193 lavoratori e delle loro famiglie.
Il resto è la cronaca di una condotta provocatoria, iniziata con la comunicazione della chiusura di un’azienda, radicata da decenni su di un territorio, con un preavviso di soli 75 giorni, senza ritenere neppure doveroso un confronto preventivo con organizzazioni sindacali e le istituzioni del territorio. Una linea proseguita con l’apertura di tavoli di trattativa, senza neppure revocare la messa in mobilità dei lavoratori, con appuntamenti che vengono sistematicamente rimandati all’ultimo momento in ossequio alla tattica del gatto e il topo. Per ultimo siamo arrivati a misure come la messa in libertà dei lavoratori, che lungi dall’essere una forma di reazione alla mobilitazione degli operai, ha il sapore di una intimidazione vera e propria.
Non sono bastati il coinvolgimento di comuni, regione e governo uniti alla mobilitazione di tutte le varie componenti della società, a mitigare la durezza di certi atteggiamenti o a indurre ad un ripensamento. Non vi è neppure lontanamente l’ombra di un confronto diretto e franco fra datore e lavoratori, che sia sfiorato dal bisogno di tutela del lavoro per ragionare da questo presupposto su tutto il resto. L’impresa ha posto al centro del suo obiettivo l’accrescimento immediato del profitto, rivendicando la libertà di scegliere come raggiungerlo, relegando ai margini il lavoro, così come da anni predicano anche i principali governi in Italia e in Europa. Così, di fatto, le multinazionali impongono la propria mentalità e le proprie priorità a tutte le altre componenti della società, senza interlocutori e senza più discussioni. Di fronte a vicende così penose, di cui quella della Smith è solo un esempio tra le centinaia diffuse in tutto il Paese, perché insistere a votare politici che fin dal loro primo atto accelerano lo smantellamento delle residue tutele del mondo del lavoro?

Progetto per Volterra